tristi previsioni: come la pensavamo sulla libia più di un mese fa


L’articolo che segue è stato scritto per un giornalino d’istituto nel lontano 4 Marzo 2011, quando la rivolta era arrivata in Libia da veramente poco tempo e la rivoluzione di Bengasi muoveva i primissimi passi verso l’attuale guerra civile. Il testo, data la data di stesura, ormai è ampiamente anacronistico, ma la quasi totalità dei contenuti espressi si è rivelata nel tempo una triste “previsione” dei fatti che di lì a poco sarebbero calati sulla testa dei libici: l’ennesimo intervento “umanitario” a suon di bombe da parte dell’occidente e un’orda di morti civili dall’una e dall’altra parte.

“La crisi libica paradigma dei paradossi d’occidente”

La ventata di sommosse popolari nel mondo arabo e il conseguente flusso di notizie (alterate o meno che siano) che gravitano attorno a noi giorno dopo giorno assumono ormai, in via del tutto definitiva, il profumo dei libri di storia. Premettendo quanto sia quasi del tutto ingiustificato (e ingiustificabile), possiamo affermare che l’immobilismo passivo davanti alla storia a cui siamo abituati è ormai scosso da questa sensazione di “insolito” (o straordinario che dir si voglia, dipende dagli orientamenti personali) che pervade il nostro affermato (?) contesto sociopolitico. Questo è un primo (e positivo) incipit della situazione odierna.

L’incipit con cui vorrei iniziare la mia riflessione, invece, è un altro: con l’arrivo della contestazione in Libia (in origine ex colonia italiana alla quale abbiamo “regalato” una deportazione di 100.000 persone e la morte di altre 10.000 sotto il dominio fascista, in seguito evolutasi a novello esponente delle cosiddette “democrature” politically friendly con le moderne democrazie occidentali alla ricerca delle risorse energetiche indispensabili alla perversa macchina del progresso) è diventato presto chiaro a tutti, in modo quasi rocambolesco, quanto si sia officiosamente chiusa una prima fase di reazione occidentale al “fenomeno” e quanto, di conseguenza, stia subentrando una ben diversa seconda fase. Brevemente: la prima, caratterizzata da un occidente incredulo e autorelegatosi ad un secondario ruolo da bravo “spettatore impegnato” (come si confà ad ogni sedicente intellettuale che vede discussa la sua posizione di burattinaio onnisciente), diametralmente opposta alla seconda, caratterizzata invece da un sussulto di autorità che unisce i lati del peggiore dei Golia con quelli del peggiore dei Davide. La fase libica di reazione occidentale al fenomeno “rivoltearabecareebelleatuttisoloquandocisirendecontochesarannoinsopprimibilieperdipiùsfruttabili” segna una volta per tutte (e come si è già potuto vedere in passato con situazioni simili) lo spartiacque tra la fase di inventio e la fase di actio dei massimi sistemi di questa malsana politica che ci governa: trovati gli argomenti sfruttabili e organizzata bene la propria posizione, si passa gloriosamente all’azione. Tutto ciò grazie, ovviamente, alla particolare figura del colonnello Muʿammar Abū Minyar al-Qadhdhāfī, un perfetto esempio di “cattivo più cattivo degli altri” che bene si presta ad un irrigidimento futurista delle strategie internazionali del cosiddetto primo mondo.

L’individuazione di queste due fasi è fondamentale per due importanti aspetti: il primo riguarda l’ennesima prova di schizofrenia politica che caratterizza tutti i paesi soggetti al diktat dell’approvvigionamento energetico (coadiuvato a sua volta, in certi casi, dalla paura indotta dai più svariati terrorismi e/o da uno spontaneo istinto guerrafondaio e più o meno giustizialista), mentre il secondo riguarda il tentativo che possiamo fare di leggere (se non addirittura di prevedere in anticipo) gli sviluppi futuri dell’intera situazione. Non voglio soffermarmi tanto sugli ormai iper appurati legami tra gli interessi del mondo occidentale e questi ibridi istituzionali che dovrebbero garantire stabilità politica in zone “calde” del globo (è fin troppo facile riconoscere i fili delle marionette o le tele dei ragni quando ormai, per una ragione o per un’altra, hanno preso fuoco), ma piuttosto proverei a fare un ragionamento d’insieme su quello che recita il titolo di questo testo: il paradigma dell’ipocrisia occidentale davanti ad importanti (e qualche volta tragici, come la repressione di questi giorni ci insegna) fatti internazionali di indubbia rilevanza globale.

Le parole del Presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama, ricettacolo delle speranze di pace ed uguaglianza per mezzo mondo, segnano contemporaneamente sia il rapido collasso della situazione libica sia una sorta di sottintesa (ed ancora più triste) sfiducia verso l’osannatissima “autodeterminazione dei popoli” (principio sancito nelle carte costituzionali dello stesso mondo occidentale o, ad esempio, della passata Unione Sovietica: parole scritte il cui valore pratico attraverso la storia è dimostrato dalla repressione inglese sull’Irlanda, dai carri armati sovietici entrati a Praga per mantenere la sudditanza dei paesi del patto di Varsavia o dalla più moderna guerra d’epurazione in atto in Cecenia). Fosse poi desiderato, questo implicito “atto di forza” che aleggia inquietante tra le parole dei ministri degli esteri di mezzo mondo (uno su tutti il nostro mitico e poliedricissimo Franco Frattini, mostro ambasciatoriale sacrificato alla realpolitik dei vantaggi e non delle opinioni), uno se ne potrebbe fare una ragione: neanche questo. Il semplice e schietto fatto che la neonata e claudicante organizzazione che gli insorti libici si sono dati a Bengasi non desideri alcuna ingerenza straniera sulla loro Resistenza a quanto pare non basta. Non basta a tal punto che prima, proprio di questa dichiarazione (che pure un giornalista del calibro di Emilio Fede non potrebbe non ritenere fondamentale), non se ne parla neanche, mentre dopo (appena l’indomani, magari) l’uomo medio si ritroverà in prima pagina sul suo quotidiano l’esatto contrario di quanto finito di dire dai portavoce degli insorti (e non da qualche misteriosa fonte) neanche due giorni prima. Così funzionano i giochi circensi delle istituzioni nazionali e sovranazionali: mesti musicisti (talvolta anche contraddittori) coordinati da direttori d’orchestra che tengono in mano dollaro e revolver più che regolari e sobrie bacchette in legno.

Stanno qua, per quanto mi riguarda, gli elementi che devono contribuire ad un’analisi critica degli interventi stranieri che sono andati tanto di moda dalla seconda metà del secolo appena concluso in poi. Se è vero, come ha scritto qualcuno su Repubblica nei giorni passati, che il nostro essere prevenuti verso azioni potenzialmente “solidali” deriva dallo stravolgimento del concetto stesso di ”intervento liberale internazionale” (corridoi umanitari più che esportazioni forzate di modelli istituzionali), causato dalla recente “esperienza Bush”, è altrettanto vero che bisogna tenere in conto la discutibile dottrina politica che, ancora una volta l’occidente (e per giunta dopo difficoltà erculee, vedi l’ancora tentennante intesa europea proprio in merito di politica estera), ha da sempre portato avanti. E mi riferisco, ancora prima che all’impotenza voluta nei confronti della Tunisia di Ben Alì (altro esempio di moderna democratura, questa volta direttamente instaurata nel vicino ’87 proprio dai nostri servizi segreti e voluta dalla stessa politica craxiana, che ha fatto comunque, e sembra quasi scontato dirlo, un numero indecente di morti ammazzati) ad episodi egualmente cruenti ed egualmente, come viene definita la repressione libica di Gheddafi da parte della Clinton, “intollerabili”.

Ora vorrei procedere, se mi è consentito cedere alla rabbia semplicistica che contribuisce a spiegare commestibilmente questi fatti, ad una serie di interrogativi indicativi dei sospetti che brancolano attorno alla mia riflessione: perchè il Kosovo, il Libano e la Libia sì, mentre il resto (che soffre tanto quanto) no?

Dov’erano i caschi blu dell’O.N.U. durante la crisi tibetana indotta dal volto peggiore del regime cinese? Dov’erano gli Stati Uniti d’America durante i fatti di Piazza Tien’anmen? Dov’era la doverosa solidarietà fra popoli durante l’onda verde che ha sfidato a mani nude la teocrazia dell’ormai defunto Khomeyni, dell’attuale Khāmeneī e del vivissimo Ahmadinejad?

La risposta, ammesso che sia possibile (e non lo è) trovare una qualsivoglia giustificazione politica (poiché proprio quella pratica, ce lo insegna l’Iraq e ce lo insegna l’Afghanistan, se c’era è caduta da tempo) a quello che non è altro che colonialismo tirato a lucido (che, tra l’altro, puzza di una sottospecie di semiassistenzialismo), è anche qui molto semplice: il furbo Davide era (è) impegnato a vedere in questi paesi (Cina su tutti) un importante e strategico partner economico indispensabile per mantenere l’egemonia nei mercati, mentre il timido Golia si ritirava (e si ritira tutt’ora) alla vista di eserciti non più composti da gente povera ubriaca di un fondamentalismo, direbbe Marx, che forse è diretta conseguenza delle infelicità terrene che le nostre logiche di mercato gli hanno imposto da secoli. E’ solo un’altra prospettiva, sicuramente anche questa incompleta, con la quale osservare la realtà.

Rosa Luxemburg scriveva che il capitalismo genera l’imperialismo perchè è propria natura di quel sistema, basato su quel magico scarto chiamato plusvalore, non potere trovare pace in un solo mercato. Quello scarto là, volta dopo volta, richiede mercati sempre più fertili con cui sostituire quella sottospecie di rasoio monouso che diventa col tempo il proprio mercato nazionale:“o Socialismo o Barbarie”. Va bene che in politica non c’è più spazio per la mitologia, ma ridursi a non parlare neanche più di alternative al metodo di sviluppo contemporaneo significa uccidere per la seconda volta Mohamed Bou’azizi, il 26enne tunisino che col suo sangue suicida alla Jan Palach irrora e resuscita le speranze di un’intera generazione di giovani cittadini del mondo.

Palermo, 4 Marzo 2011

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