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SENZA LACRIME PER I COCCI
Lo ammettiamo: non riusciamo ad appassionarci alla sequenza di annunci e smentite sulle dimissioni del governo, né alle adunate dell’opposizione parlamentare – o di segmenti più o meno autoreferenziali di essa – in piazza piuttosto che alla Leopolda.
Non è in alcun modo entusiasmante sapere che il governo manterrà, o meno, la propria maggioranza parlamentare a seconda della maggiore capacità di Denis Verdini di acquistare voti per governo, o di Paolo Cirino Pomicino di sottrargliene. Così come poco entusiasmante è stata la kermesse di Bersani, dalla quale ci pare di capire che l’unica novità sia l’elezione di Neffa a canzoniere ufficiale del partito: contenti loro…
Soprattutto, quello che non ci interessa è lo sguardo da gossip – se non da video porno amatoriale – che segue queste vicende sui media mainstream (e non solo, purtroppo). Come se si fosse persa la capacità di leggere, dietro le personali biografie dei candidati, i grumi di interessi, gli strati sociali, le lobbies e le congreghe che ciascuno di loro rappresenta, e il cui conflitto spiega molto più delle ricorrenti insinuazioni su Tizio o Caio. Come se, di più, vecchi e nuovi apprendisti stregoni dell’autonomia del politico avessero smarrito la capacità di comprendere il particolare all’interno del generale: che, ci pare di ricordare, era pur sempre il significato del termine “ragionare”.
Tenaci e testardi nell’arte del ragionare, ci sembra di poter vedere nelle vicende italiane null’altro che l’applicazione del paradigma greco: un paese portato al disastro da una fattiva collaborazione tra politiche scellerate dal punto di vista del comune – ma redditizie per i detentori della ricchezza sociale espropriata al lavoro manuale e intellettuale – e grande finanza internazionale, nello specifico nella prevalente figura della Goldman Sachs, che ha inondato la Grecia di titoli derivati operando al tempo stesso sui mercati per il fallimento del paese di cui è creditore.
Alla Grecia, in situazione di default di fatto da ormai un anno, è stato fatto capire dal governo europeo rappresentato dalla coppia franco-tedesca Sarkozy-Merkel, braccio esecutivo del commissariamento della democrazia operato dalla finanza internazionale, che gli echi di un lontano passato in cui fu coniata la parola “democrazia” è archeologia monumentaria. Che il tempo in cui non si aveva timore di dibattere prima di decidere, nella convinzione che la discussione accresce il valore della decisione, è buono forse per i libri di storia: non certo per i processi di governance, che non tollerano temporalità difformi da quella istantanea del decisionismo finanziario. E poco conta sapere se Papandreu ha davvero creduto di poter lasciare la decisione alla sovranità popolare, o ha preparato con cinismo la propria uscita di scena in favore di un successore già designato, diretta emanazione della BCE. Come ebbe a dire meno di un anno fa Vendola, «la democrazia nata in Grecia è morta in Grecia con la vanificazione della volontà popolare da parte dei diktat della Banca Centrale Europea».
Lo stesso accade con l’Italia. L’epistolario tra BCE e governo, il commissariamento dell’economia nazionale da parte del FMI, l’avvio in forma inusuale delle consultazioni col governo ancora in carica da parte del presidente Napolitano (con o senza l’opera di persuasione all’illegalità costituzionale sollecitata da Asor Rosa), fino allo sdoganamento della compravendita di pacchetti di maggioranza, col solito correlato di topi che fuggono la nave che affonda in cerca di più sicuri approdi, ci sembra avere il chiaro significato di una ricerca, su mandato della BCE e delle grandi banche creditrici, di un governo che sappia garantire quell’ottemperanza ai diktat europei che l’attuale non riesce più a garantire. Non solo Renzi o Bersani, ma addirittura quello stesso Vendola che lo scorso dicembre s’infervorava in un appassionante dibattito sul senso della politica, arrivando a evocare la potenza trasformativa del tumulto, appaiono oggi schierati a difesa degli interessi delle grandi banche che, avendo speculato sul default dell’Italia (come degli altri PIIGS), al tempo stesso non possono permettersi questo default. Che per questo scopo si debba varare un “Governo della Patrimoniale”, a garanzia del quale – ma soprattutto del buon fine della quale – sia chiamato l’International Advisor di Goldman Sachs Mario Monti, autocandidatosi a garante di quel “potestà forestiero” rappresentato dai firmatari della lettera della BCE all’Italia (ai quali può essere aggiunto l’ex Vicepresidente di Goldman Sachs Mario Draghi) è solo l’ultimo degli atti di commissariamento della democrazia. Con un correlato che non può essere sottaciuto: che la tanto invocata Patrimoniale, che insiste sulle grandi ricchezze ottenute vampirizzando il lavoro vivo e la ricchezza sociale, toglierebbe ai ricchi (che a loro volta hanno tolto al comune) per dare ai ricchissimi. Con costi sociali altissimi, a fronte dei quali la “lettera alla BCE” rappresentata dalla giornata romana del 15 ottobre apparirà al più una cartolina postale. E non è forse casuale che all’incapacità dell’attuale maggioranza di governo di garantire la pace sociale abbia fatto risonanza l’invocazione di forme più stringenti di controllo da parte del partito-Repubblica (con improvvide e improvvisate autoproposizioni che speriamo davvero frutto di un momento di scarso discernimento): e che questa necessità possa essere una concomitante causa del prossimo avvicendamento governativo è un sospetto che manteniamo.
In questa luce perde un po’ del suo aspetto grullescamente folkloristico la kermesse della Leopolda, culminata con un programma in 100 punti al tempo stesso troppo lungo per essere letto per intero, e troppo sintetico per dire come Renzi e Gori intendono realizzare ciascun punto. Tra i quali, a mo’ di esempio, troviamo la legittimazione della precarietà lavorativa con il “contratto unico a tutele progressive”; la liberalizzazione dei servizi pubblici; la riforma delle pensioni; la riconferma pari pari delle norme vigenti sull’immigrazione (la cosiddetta “immigrazione legale”, o “intelligente”); la riappropriazione degli obiettivi della Compagnia delle Opere-Comunione e Liberazione su scuola e università (con significativi “I remember” del Piano di rinascita democratica); il completamento del monopolio berlusconiano delle reti televisive; e via spigolando. A riprova del fatto che all’interno dell’attuale centro-sinistra c’è un aggregato di interessi moderati, rappresentato da chi, anche all’interno del PD e del sindacato, ha visto e vede con favore le riforme Gelmini, le politiche di Sacconi e Brunetta, l’attacco ai diritti dei lavoratori, il tentativo di sottrarre al comune i beni primari sotto forma di privatizzazione dei servizi: e si candida a gestire in modo “efficiente” e “moderno” il commissariamento della democrazia e dei diritti, oliando quei processi di governance che la composita maggioranza di centro-destra non riesce più a gestire.
In questa situazione, evocare il concetto di alternativa – con significativi lapsus che alludono ad una dimensione “metafisica” – ha il suono vacuo di quella “transizione” buona per tutte le stagioni con la quale, nei famigerati anni Settanta (quelli, ricordiamo, della politica dei due tempi e dell’austerità, delle scomuniche a sinistra e dell’autonomia del politico), si riempiva la bocca la parte più vacua e inconcludente della sinistra gruppettara.
Per parte nostra, piuttosto che chiederci se in nome di un’alternativa siffatta si debbano ingoiare bocconi che vanno da Renzi a Gori, da Gabriella Carlucci a Scajola (per noi che abbiamo visto Genova…), ci sembra importante lavorare in favore di proposte – come il diritto al default, da contrapporre al pagadebit della Patrimoniale – che segnino concrete soluzioni di continuità rispetto alla fase attuale: nella consapevolezza che questa crisi, e i processi di ristrutturazione delle finanze e delle governance che in essa si stanno attuando, non lasceranno cocci da riattaccare. E che da ricomporre non siano i vasi del passato, ma i segmenti sociali da unificare in una prospettiva costituente.