Ottima e per niente banale (anche rispetto ad altre posizioni di movimento) analisi sulla neonata fase post berlusconi.
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DOPO BERLUSCONI. C’E’ VITA OLTRE LO SPREAD?
“He that wants money, means, and content is without three good friends”
William Shakespeare
1) La caduta del governo Berlusconi è stata determinata da una lenta sedimentazione di fattori interni e dall’esplodere della crisi del debito sovrano nell’area euro. Per capire la fase politica che si è aperta bisogna sottolineare entrambi i passaggi altrimenti si resta ancorati ad una lettura eccessivamente nazionale o astrattamente sistemica dei processi in corso. Prima di tutto infatti bisogna considerare l’erosione e la crisi della base materiale del Pdl, quella che prima ancora lo era di Forza Italia, che ha rappresentato il baricentro del campo di forza del centrodestra. La base materiale del Pdl, l’ultima istanza alle quale si riferivano tutti i legami diplomatici e clientelari del centrodestra, era il gruppo Mediaset. Che era entrato in politica come gruppo Fininvest, con l’interfaccia di Forza Italia, per garantirsi una direzione, o comunque un potere di veto in caso di opposizione, nei processi di ristrutturazione del sistema televisivo, in quelli di collocazione azionaria del gruppo, nella definizione di un regime fiscale favorevole, nella regolazione complessiva del mercato pubblicitario. Il conflitto tra legislazione e potere politico, detto in termini più popolari tra magistrati e Berlusconi, che si è accentuato dalla seconda metà degli anni ’90 riguardava quindi la persona fisica, e simbolica, di Berlusconi ma entrava di fatto in una straordinaria complessità di interessi. Complessità che rappresentata dal trasferimento del rischio di impresa Mediaset, comunque esterno allo stato, sul terreno del conflitto politico e istituzionale. Perfettamente interno al corpo dello stato, là dove è ospitato ancora oggi.
Il gruppo Berlusconi, caso finora unico nella storia occidentale, metteva infatti direttamente il potere di connessione sociale della televisione generalista su un terreno politico istituzionale a servizio dell’evoluzione dei progetti interni di impresa. Quasi vent’anni dopo la crisi del gruppo Mediaset, certificata al momento con la perdita del 50% del valore azionario in meno di un anno, è paradossalmente determinata dal successo della discesa in campo del 1994. Mediaset ha infatti adesso una posizione dominante nel mercato della raccolta pubblicitaria, dominio che rischia di perdere, per quanto le sue televisioni generaliste abbiano perso quasi dieci punti in audience in meno di cinque anni. La sua televisione pay, sostenuta dal proprio governo e lanciata dal management televisivo dell’azienda, non produce ancora profitti nonostante l’investimento complessivo sia stato di quasi un miliardo e mezzo di euro. Si comprende come il tesoro attuale di Mediaset sia quindi la raccolta pubblicitaria che non è però determinata dall’audience ma dal potere politico di Berlusconi al governo. Messo in crisi, almeno dal 2010, il governo si capisce come il titolo Mediaset abbia subito un brusco crollo in borsa: gli investitori sanno benissimo che il vero patrimonio attuale di Mediaset, la raccolta nel mercato pubblicitario, è legato alle fortune del governo. L’emergere della tv satellitare, la diffusione di internet e dei social media hanno poi rappresentato un fenomeno di erosione del patrimonio politico, e quindi economico, di Berlusconi: quello legato al potere di connessione sociale della televisione generalista. Altrimenti sarebbe stato più facile per Berlusconi giocare la carta del ritorno alle elezioni, grazie ad una legge elettorale che potrebbe almeno garantire un pareggio, con una egemonia culturale intatta e la supremazia sui media generalisti. Ma se si vanno a leggere, in quest’ottica, i risultati delle amministrative di maggio e del referendum di giugno si capisce che quest’egemonia si è sgretolata. Per fare un esempio: una generazione cresciuta, nell’impotenza e nella cecità di tutte le sinistre anche di movimento, con l’educazione politica di Italia Uno ha cominciato a usare i social network cessando di guardare la tv come telespettatori e ha anche smesso di votare Berlusconi. Si tratta di elettorato strategico. Dall’altra parte lo stesso fenomeno si sta rivoltando contro il centrosinistra, dove l’elettorato più è connesso e informato più contribuisce a sgretolare il PD, ma questo non è un problema politico all’ordine del giorno. Almeno fino all’esaurimento degli ultimi colpi di coda del berlusconismo.
Questi venti anni hanno quindi dimostrato, e l’Italia ha fatto da sinistro laboratorio, che l’economia di un media al potere è in profonda contraddizione con la regolazione generale dell’economia. E proprio un mondo liberista. Mediaset è riuscita a crescere infatti non solo generando conflitti nell’apparato dello stato e tra istituzioni, precondizione per realizzare i propri piani di impresa secondo la logica produttiva del conflitto di interessi, ma anche alienandosi ogni rappresentanza produttiva possibile di questo paese. Si ricorda giusto l’ultima stagione di Gorbaciov prima del crollo dell’Urss per mettere a fuoco l’idea di un governo completamente sganciato da ogni rappresentanza sociale ed economica senza più margini di recupero.
La lenta sedimentazione della crisi generata dal successo della stessa politica di Mediaset (occupazione di nessi strategici dello stato, egemonia sul mercato della comunicazione) si è quindi incontrata con l’accelerazione della crisi del debito sovrano. E qui se Berlusconi, dopo la lettera di Draghi e Trichet di quest’estate, non è riuscito a calarsi nel ruolo di commissario della Bce qualche significato, meno pittoresco di tanti generalmente attribuiti, la vicenda ce l’ha. L’impossibilità di fare una patrimoniale da parte di Berlusconi, ad esempio, viene dalla impossibilità di una azienda (Mediaset) di tassare sé stessa tramite il governo di cui era di fatto maggiore azionista. Ma non solo: le richieste, fino ad adesso inevase, della coppia Draghi-Trichet di vendere le quote pubbliche Eni, Finmeccanica ed Enel andavano contro la rete di alleanze strategiche che il gruppo Mediaset, per profitti nazionali e internazionali, si è costruito in anni di occupazione di nessi dello stato e della pubblica amministrazione. Come, molto probabilmente ma qui ci vorrebbe maggiore informazione pubblica (altro che paginate di dettagli su Ruby, Gianpi e Lavitola), Berlusconi (cioè Mediaset) ha giudicato irricevibili le proposte, e le prospettive, di ristrutturazione del sistema bancario italiano provenienti dalla Bce dopo il crollo dei titoli bancari nazionali di quest’anno. Mediaset infatti, come tutte le multinazionali, si comporta a sua volta come hedge fund, come attore speculativo sui mercati finanziari. La crisi ha fatto saltare la rete di protezione nazionale, e non solo, sulla quale il gruppo Berlusconi si basava per le proprie strategie finanziarie. Il ruolo di commissario di fatto della Bce in Italia, e quindi di un ente strategicamente spaccato (cosa che i media italiani omettono), non poteva quindi essere adatto per Berlusconi. Infatti, in questa prospettiva, il cavaliere di Arcore è durato meno di tre mesi.
2) Quali siano le forze che hanno disarcionato il cavaliere è presto detto: a livello nazionale tutte quelle tradizionali peraltro in crisi (mondo bancario allarmato, confindustria, chiesa) a livello europeo tutte quelle divise al proprio interno e tra di loro a causa della durezza della crisi (Bce, Ue, Francia, Germania e qualche hedge fund americano. E qui non a caso uno di questi fondi è saltato, per aver creduto troppo in Berlusconi, e prontamente Obama si è felicitato per la caduta del cavaliere). Il punto importante però è capire la dinamica politica, economica e finanziaria in corso.
L’economista Emiliano Brancaccio sul suo sito, analizzando la politica possibile di Mario Monti a partire dalla sua produzione scientifica, ha usato un’immagine utile a comprendere quello che sta accadendo. Ha parlato infatti di grande capitale che, in fase di crisi e ristrutturazione, estromette il piccolo capitale. Questa definizione aiuta a capire, nella corretta prospettiva, di cosa stiamo parlando. Ovvero che il berlusconismo, che ha plasmato la morfologia dell’asse centrale della società italiana per un ventennio, è piccolo capitale rispetto alle forze globali che si stanno agitando su questo scenario. Il fatto che abbia dovuto cedere in meno di 90 giorni dall’inizio del braccio di ferro con questi poteri ci fa capire di che razza di forze stiamo parlando.
In questo senso Mario Monti rappresenta, o rappresenterebbe se il suo cammino si farà particolarmente accidentato, il classico tentativo di saldare alcuni interessi nazionali (bancari, confindustriali, istituzionali) con queste correnti di grande capitale che hanno permesso la defenestrazione di Berlusconi.
Ma qui la situazione non è affatto semplice. Giusto le principali centrali di produzione di ostacoli cognitivi per l’elettorato di centrosinistra (Repubblica, Fatto Quotidiano, Tg3, l’Unità non la si conta più da tempo. Eppure in passato ha dato tanto per la disinformazione in questo paese) possono immaginare che la “soluzione Monti” sia qualcosa di simile all’uscita dai problemi. Certo, in un’ottica provinciale, nella mitologia negativa del piccolo paese di ciarlatani che deve adeguarsi agli standard di efficienza dei grandi, Monti può sembrare una soluzione. Il problema è che la verità sta da un’altra parte. Prima di tutto il tentativo di occupazione della sovranità economica, fiscale, finanziaria dell’Italia, da parte dei flussi di grande capitale globale, non avviene per alleanza organica, strategica ma per sovrapposizione di interessi (anche divergenti tra loro). Di conseguenza, fatte le dovute proporzioni storiche e detto senza il meccanicismo tipico dei ricorsi storici, il tentativo di occupazione dell’Italia ricorda più la calata dei tedeschi nel nostro paese a seguito dell’8 settempre che lo sbarco degli americani in Sicilia. Più insomma, il tentativo di occupare un paese prima alleato da parte di una potenza in difficoltà che l’arrivo di una coalizione destinata alla vittoria.
E qui bisogna internazionalizzare lo sguardo altrimenti la crisi italiana non la si capisce o si rischia di pensare di averla capita dai corsivi di Giannini su Repubblica o di Travaglio (che applaudono senza riserve a Monti alimentando la propaganda più che la comprensione dei problemi). Su tutte le prime pagine del pianeta l’Italia è vista esplicitamente, e rappresentata nel dettaglio, come una possibile Lehmann Brothers all’ennesima potenza in grado di sinistrare il sistema finanziario globale. Se l’Italia avesse avuto un ceto politico degno di questo nome avrebbe potuto giocare questa alta potenzialità di rischio come deterrente verso chiunque ricontrattando, a livello internazionale, lo stesso profilo politico dell’Ue e le regole di quel delirante casinò planetario che la propaganda in forma di notizia chiama “il giudizio dei mercati”. Siccome abbiamo tristi maschere vernacolari, come Bersani o Di Pietro, allora ci è toccato in sorte quello che era chiaro dal 2007 (e che Prodi, allora presidente del consiglio, negava. Anche qui incredibile che il personaggio abbia ancora buona stampa). Ovvero che la crisi dei subprime, diventata poi crisi del debito sovrano, aggredisse in differenti e pericolosissime forme il terzo mercato obbligazionario del mondo. Ovvero l’Italia. Quello che sta accadendo al nostro paese, alla faccia della propaganda berlusconiana del “noi stiamo meglio degli altri, è quindi la prevedibile, almeno da oltre quattro anni, immissione nel terzo mercato obbligazionario al mondo di tutte le forze centrifughe generate dalla vicenda Lehman. Se lo slogan della complessità degli anni ’80 diceva che un battito di farfalla a New York poteva generare un terremoto in Europa immaginiamoci cosa può potenzialmente accadere nel nostro continente se da New York parte non un battito di farfalla ma proprio un terremoto. E i grandi flussi di capitale si agitano proprio per impedire il realizzarsi di questo linkage tra Usa e Europa. Linkage generato però proprio dall’esigenza di perpetuarsi da parte di capitali colossali che si aggirano per il pianeta producendo crisi come quella Lehman. E che si sgretolano se non stanno in movimento tra un mercato e l’altro.
L’occupazione del nostro paese da parte di Fmi, Bce e Ue racchiude quindi una missione pericolosa e disperata. Disinnescare in Italia una possibile Lehman Brothers all’ennesima potenza. Il Guardian, riprendendo uno studio della Barclay’s, l’ha detto esplicitamente: l’Italia rischia di esplodere seriamente e, se accade, quanto avvenuto nel settembre 2008 per il sistema finanziario globale assomiglierà ad una vacanza (testualmente Roman Holyday, giusto per non tradire il gusto briannico per il glamour italiano). In questa missione Monti, dal punto di vista dei poteri italiani che contano, rappresenta il tentativo di coniugare questa missione pericolosa, dettata dal cielo dei grandissimi capitali, con quanti più interessi nazionali possibili.
Il punto però è che è la lotta senza quartiere c’è, ed è accanita, anche nel quartier generale dal quale è partito l’ordine per la missione di Monti. Nei media italiani, tanto generosi nel mostrare le copertine su Berlusconi sull’Economist o le vignette di Le Monde, si è infatti omessa una importante notizia data con rilievo dalla Frankfurter Allgemeine. Ovvero quella sullo scontro durissimo all’interno della Bce proprio sulla linea da adottare nei confronti dell’Italia e della Grecia nell’immediato e sulla crisi del debito sovrano in prospettiva. Da una parte, per semplificare, c’è la posizione Draghi-Francia sull’acquisto continuo di titoli di paesi in difficoltà per non far lievitare il debito mentre, dall’altra, c’è la linea tedesca-olandese (i paesi della tripla A sicura) contrari a questa politica e disposti a un ulteriore, drammatico bagno di sangue della spesa pubblica italiana e greca. Anche perché, da un aumento dei tassi di interesse italiani, non sono poche le banche tedesche che si sono rifatte i bilanci speculando come un hedge fund qualsiasi. Insomma, l’”Europa” esiste solo nella retorica di Napolitano e gli ordini del quartier generale che ha inviato Monti non solo non sono chiari ma sono contradditori perché frutto di interessi divergenti.
E’ anche possibile che una precipitazione del debito sovrano francese risolva, in un modo o in un altro, queste tensioni ma al momento, per dirne una, lo scenario è tale per cui il governo inglese ha dato notizia, pubblica ma non pervenuta in Italia, di aver approntato un piano di emergenza in caso di esplosione del debito sovrano italiano e di paralisi, per veti contrapposti, della Bce.
CONCLUSIONE
Le politiche economiche, finanziarie, fiscali di questo paese sono quindi determinate da questo scenario. A breve, fonte Wall Street Journal e Financial Times Deutschland, in Europa si apre una stagione di ampia necessità di finanziamento del debito sovrano per scadenza di titoli pubblici precendentemnte contratti. Il WSJ parla di possibile credit crunch europeo a fronte di una domanda mondiale complessiva di 1000 miliardi di euro da titoli di debito sovrano in scadenza. Si capisce così che l’Italia è solo uno dei problemi aperti in area euro, e l’FTD fa vedere ai lettori del proprio sito un’impressionante animazione sul rigonfiarsi dei debiti sovrani in Europa nel 2012. Una cosa è sicura: se questa crisi verrà risolta in modo capitalistico l’Italia sarà semplicemente, socialmente ed economicamente, formattata dalle esigenze del capitale. Esigenze che, nella prossima decade, si candidano ad essere quelle del ritiro del capitalismo finanziario ed economico dalla società. Della sua concentrazione in grandi riserve lasciando scoperti dietro di sé, territori, generazioni classi sociali. Sia la Lagarde del FMI, che ricordiamo è uno dei commissari dell’Italia, che la Merkel hanno già pubblicamente parlato di un decennio di crisi davanti a noi. L’Italia verrà, se passerà la soluzione neoliberista della crisi, formattata facendo entrare di fatto nei territori di riserva del capitale finanziario ed economico solo le strutture e i ceti sociali, di questo paese, in grado di farne parte. Per il resto, nel migliore dei casi, c’è il governo dell’esclusione.
Da Berlusconi a Monti si passa quindi da una dimensione del conflitto permanente tra politica e legislazione, tra “Berlusconi e i giudici”, condizione strutturale necessaria per la crescita del parassita interno Mediaset, a una dove la crisi del debito sovrano porta alla cessione di sovranità nazionale. Il fatto che il governo Monti debba giurare in contemporanea con l’apertura dei mercati marca, con la potente forma politica del simbolico, questa convinta cessione di sovranità da parte dell’establishment italiano.
Resta da chiedersi quali forme di vita politica ci siano oltre la mistica della riduzione dello spread tra bund tedeschi e btp italiani. Perché se la crisi del ’92 ha determinato forme e stili di vita di un ventennio, oggi ci troviamo di fronte ad un processo storico che si candida a produrre trasformazioni ancora più gigantesche nella morfologia delle nostre società. Canonicamente da parte delle forme politiche di opposizione si impone un salto di complessità. Nel decennio successivo al ’92 le forme politiche di opposizione sono mutate, e non di poco, ma non hanno fatto un salto di complessità. Si tratta di esserne consapevoli se si vuol fare una politica adeguata al presente e al futuro. Siamo di fronte ad una situazione la cui portata impone di liquidare il vecchio “agire localmente, pensare globalmente” perché inadatto alla complessità, politicamente insostenibile per la forma movimento contemporanea, delle società odierne. Perché i movimenti locali possono essere annichiliti, come è avvenuto dalla crisi di quest’estate, di fronte alle scosse telluriche globali. Si tratta di radicarsi territorialmente, abbandonando la forma movimento desueta tutta improntata sul primato dell’opinione pubblica, essendo allo stesso tempo in grado di fare sistema complessivo con i propri simili. Un salto di complessità indubbiamente, favorito però dalla complessiva accelerazione del politico che le svolte tecnologiche hanno impresso nel mondo contemporaneo.