Dicotomie, Utilità, Risultati: Riflessioni sul 15 Ottobre e sul Movimento


 

 

 

 

 

 

 

 

Documento della Rete dei Collettivi Studenteschi di Palermo sul 15 Ottobre e sulle prospettive future

DICOTOMIE, UTILITA’, RISULTATI: RIFLESSIONI SUL 15 OTTOBRE E SUL MOVIMENTO

Parlare del 15 Ottobre, anche per chi come noi ha vissuto quella giornata, richiede uno sforzo maggiore della stesura di un comunicato o di un giudizio abbozzato in base alla visione di qualche filmato e qualche fantomatica intervista con un mascherato black bloc: il corteo era così lungo e così variegata era la composizione, che dividere tutto il corteo in buoni e cattivi, in violenti e non violenti, in black bloc e “colorato bloc”, è una visione superficiale e incapace di abbracciare la vastità di quel movimento, arrivato probabilmente all’apice dei consensi. Basti pensare che le maggior parte delle persone che riempivano quelle strade non ha mai visto quei famigerati black bloc, ma ha visto le macchine incendiate, non è arrivata nemmeno lontanamente vicina a Piazza S. Giovanni, ma ha ascoltato i racconti fatti dai media e ora anima i suoi discorsi in base a quelle narrazioni. E allora partiamo da queste narrazioni.

Narrazione “Tossica”

Prima della distorsione “politica” fatta dai giornali di una manifestazione, il racconto di una manifestazione (e in generale di un movimento così eterogeneo e così vasto) risulta in partenza “tossico” e fuorviante proprio per la fondamentale incapacità dei giornalisti di entrare e parlare con quel movimento. La prima critica da rivolgere ai giornalisti non riguarda la linea politica assunta dalla testata, ma l’incapacità di narrare un evento: chi è salito su quei pullman per Roma, chi si è fatto il corteo affianco a quello che è stato poi chiamato blocco nero, chi ha conosciuto almeno un ragazzo che era quel giorno a Piazza S. Giovanni, sa che non esistono i black bloc. A Piazza S. Giovanni, lungo tutto il corteo, c’era uno spaccato di società importante, fondamentale per capire cosa sta provocando la crisi a livello sociale, e da cosa saranno dominate le manifestazioni se continueremo ad usare la strategia dell’isolamento e della tensione con centinaia di giovani che tolti i caschi, aperte le felpe, liberati dai nodi delle sciarpe, scopriamo essere i nostri fratelli, i nostri zii, i nostri amici che incontriamo in facoltà o per i corridoi di scuola.

Lo stesso nome, black bloc, proviene da un’attribuzione estetica data a un determinato gruppo di persone, qualcosa di visibile da lontano, non una differenza qualitativa sulle pratiche, non una riflessione da vicino su ciò che vogliono: basta vestire in un modo e automaticamente cominci a fare parte di un gruppo o ad essere braccato da altri manifestanti che in te identificano il guastatore della loro protesta; siamo ritornati a ragionare per bande, per bloc (appunto) contrapposti, il dreadlock si fa la canna, lo skinhead è per forza un fascista (come ha scritto l’Unità), quello vestito di nero fa gli scontri.

Questa visione del mondo probabilmente ci fa stare tranquilli, sereni nel nostro divano senza stare lì a insinuare dubbi su ogni articolo o servizio, senza entrare nel merito della situazione, possiamo pontificare e sparare merda sulla categoria che il giornale, con la sua narrazione “tossica” del corteo ci ha propinato. Proprio questa mistica unione che i giornali, partiti, sindacati e associazioni stanno avendo intorno al corteo del 15 fa paura, non si avvertono nemmeno più quelle sfumature che ti facevano riconoscere il centrosinistra, o il media di centrosinistra, dal giornale di Centrodestra o dall’esponente fascista del Centrodestra: tutti si accalcano intorno al nuovo scoop, alla nuova storia fornita dal black bloc di turno, tutti, politici ed editorialisti, fanno a gare per riesumare la peggiore legge per evitare cortei al centro città, per dar più forza alle forze dell’ordine, per isolare i violenti e stare tutti molto più contenti. Proprio in questo modo si consuma il passaggio da narrazione a provvedimento politico “tossico”, incapace di analizzare realmente il problema. E da qui partono le proposte per la Legge Reale, le pene più severe per i cortei, il divieto di sciopero in centro.

La Nostra Narrazione

Ci sono due premesse fondamentali per capire la vittoria del movimento e la sua conseguente spaccatura dopo il 15.

In questo dato momento storico la pratica vincente per ogni movimento è l’eterogeneità, lo sforzarsi di comprendere le differenze tra vari gruppi che animano il blocco anticapitalista e produrre, a partire da queste, pratiche di conflitto inclusive. Sembra concludersi, almeno nell’efficacia, la pratica dell’autosussistenza e dell’autoisolamento: vinco perchè sventolo al vento la p38, o perchè nel corteo siamo tutti uguali, con la stessa maglietta, con la stessa bandiera e lo stesso slogan. Le vittorie al referendum ci hanno dimostrato proprio questo: un referendum profondamente di sinistra, perchè contro le privatizzazioni e i vari abusi di potere dei potenti contro i più deboli, è riuscito a mobilitare una forza sociale varia nella sua composizione, che ha portato al voto la sinistra extraparlamentare che per eccellenza non va alle urne, e il popolo del Partito Democratico che molto ipocritamente con i suoi dirigenti ha sostenuto alla fine i quattro referendum. La forza dei vari movimenti (potremmo citare centinaia di manifestazioni in cui si è praticato il conflitto ma si è rimasti sempre tutti uniti) sono le centinaia di persone che fanno parte di partiti di sinistra che si sono unite in corteo con pezzi di movimento che odiano i partiti, l’autonomo accanto al missionario dei Laici Comboniani, l’anarchico accanto a Don Gallo, il rivoluzionario accanto il vecchio 70enne. Gruppi che sembrano escludersi una volta in piazza, trovano pratiche includenti, trovano forme di lotta dura ma che il movimento in quel momento ritiene necessario e produttivo.

Dopo il 15 invece, proprio per il carattere transnazionale della giornata, ogni gruppo italiano ha cercato di mettere il proprio cappello all’interno della propria mobilitazione, ogni gruppo voleva mettere il proprio striscione alla testa del corteo e praticare la forma di lotta che gli avrebbe portato maggiore visibilità e maggiore consenso al proprio spezzone, senza consultare gli altri, senza provare ad immaginare forme radicali di lotta che tenessero insieme il “black bloc” e la nonna con nipotini. Mentre tutto il mondo ragionava su occupare dappertutto i luoghi di potere (ognuno nelle città con le proprie pratiche), il Coordinamento 15 Ottobre a Roma faticava ancora a trovare punti d’accordo, spostando la fine del corteo verso un’inutile Piazza S. Giovanni con l’intento di fare la solita passerella politica di turno e lasciando fino alla mattina stessa libertà di movimento e di pratiche a tutto i vari gruppi organizzati o meno.

Rabbia di Piazza

Come sintetizzano benissimo i Wu Ming “Rendiamoci conto di una cosa: non ci sarà mai più una “manifestazione nazionale di movimento” che non includa quel che abbiamo visto il 15. Quando si sceglierà quel format, si acquisterà sempre il “pacchetto completo”. C’è una rabbia sociale talmente indurita che non la scalfisce un martello pneumatico, e due generazioni allo sbando completo, derubate di futuro e furibonde, tutte pars destruens, prive di fiducia nei confronti più o meno di chiunque. La narrazione degli infiltrati, vera o falsa che sia, è consolatoria e diversiva. Anche se degli infiltrati ci fossero, avrebbero ben poco lavoro da fare. Migliaia di persone sono disposte allo scontro, è questo che non si vuole vedere”.

Purtroppo (ma chi era così ingenuo da aspettarsi il contrario?) tre anni e più di proteste del tutto ignorate contro lo sviluppo imposto dal capitalismo e dalla speculazione economica delle banche hanno provocato anche questo: rabbia psicotica, violenza generalizzata. Anche noi, manifestanti, ci siamo stretti entro gli angusti canali di violenza/non violenza, incapaci di superare la situazione di stallo a cui questa dicotomia porta: scegliendo la via della rabbia, della violenza, il 15 abbiamo scelto la via dell’autoisolamento, abbiamo aiutato i media ad intrappolarci nella categoria di “violenti”, di “barbari” isolati dalla gente per bene, cosa che non erano riusciti a fare appieno per il 14 Dicembre e per l’assalto al cantiere del Tav proprio per lo sforzo che il movimento aveva fatto per superare questa dicotomia.

La frase, citata da quasi tutti i movimenti, di Bertold Brecht “Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo costringono” non deve essere la giustificazione ad ogni esempio di rabbia o violenza, ma, secondo noi, deve fare da guida per capire qual è la causa originaria di tanta rabbia. La prima cosa da criticare non è tanto la rabbia, ma le cause che la generano: il fatto che per anni governi miopi e sordi hanno visto sfilare ogni giorno sotto il loro Parlamento centinaia e migliaia di persone senza che venisse accolta una sola delle loro molteplici proposte, il fatto che per anni gli studenti si sono spesi in ogni forma di protesta possibile, dalle proteste pacifiche alle occupazioni di scuole (già ritenute azioni violente dai media), dalle occupazioni di statue all’esplosione di rabbia del 14 Dicembre, e la risposta è stata sempre la stessa “sono una minoranza, sono gli studenti che non vogliono andare a scuola, sono gli operai che non vogliono l’avanzata dell’industria, sono i professori cresciuti con il mito del ’68 e che ora fanno i precari quando in realtà sono dei perditempo”. I primi black bloc sono i politici, i primi black bloc sono gli speculatori delle banche che ogni giorni bruciano i soldi delle pensioni dei nostri nonni, che ogni giorno decidono su quanti soldi lo Stato deve spendere in servizi sociali per i quartieri, in istruzione e cultura. Le cause della rabbia di Piazza S. Giovanni sono queste, e non esistono black bloc: esiste il precario, il disoccupato, lo studente, e il ragazzo semplicemente insoddisfatto disposto a mettere ferro e fuoco una città.

Ora, come scrive Bifo, “non serve a nulla fare la predica agli arrabbiati, perchè loro si arrabbiano di più, e non stanno ad ascoltare le ragioni della ragionevolezza”, non serve a nulla criminalizzare chi prova una giusta rabbia dandogli del violento, e parimenti non serve nemmeno dire “non possiamo condannare la rabbia”, altrimenti potremmo paradossalmente biasimare la rabbia dei fascisti contro i campi rom o contro i nostri compagni (d’altronde sempre di rabbia e repressione stiamo parlando); la scelta che dobbiamo seguire come movimento studentesco è stare dentro Piazza S. Giovanni, stare tra i “black bloc”, stare tra quelli che tutti considerano “gli ultimi”, i “barbari della società”, e creare conflitto contro quelle sedi che creano e alimentano questa rabbia: contro il Parlamento, principale sede di un distorto modello di democrazia dove la fiducia viene comprata per poltrone o per soldi, dove l’essere eletto da una “maggioranza” della popolazione autorizza l’infischiarsi della minoranza del Paese, configurando così una pericolosissima “dittatura della maggioranza” dove al suo interno siedono persone con interessi altri rispetto al bene del Paese. Il conflitto lo dobbiamo organizzare contro quelle multinazionali che precarizzano i loro dipendenti, contro le agenzie di rating e gli speculatori, contro Draghi e Trichet.

Conflitto

Per quei giornalisti che stanno leggendo il documento, per tutti quei delatori di partito o di movimento che hanno mandato le loro foto per infangare altri manifestanti, è inutile che leggendo la parola “conflitto” iniziate ad annotare tra i pericolosi Black Bloc anche la Rete dei Collettivi, è inutile che iniziate a ricercare tra le vostre foto i volti che animano il nostro movimento, perchè noi siamo fieri di dire che il conflitto lo usiamo come metodo di lotta, e crediamo che può essere anche il mezzo giusto per aggregare e vincere battaglie.

La dicotomia violenza/non violenza, su cui ormai tutti ci scervelliamo per scegliere una o l’altra parte, è un problema finto, “tossico”, che analizza il problema solo superficialmente, che analizza la battaglia con la semplificazione in blocchi tipica del mainstream: o stai da una parte o stai dall’altra e diventi automaticamente un criminale da isolare, anche in casa. O stai dalla parte dei nonviolenti che spesso e volentieri vengono visti come manifestanti tranquilli che non lanciano nessun messaggio rivoluzionario (e di cui quindi non bisogna avere paura) o stai dalla parte dei violenti da non tenere in considerazione. Questi discorsi sono falsi, spostano le attenzioni e depotenziano ogni manifestazione! Bisogna superare questo finto problema, e bisogna farlo ponendo prima di ogni azione non le categorie a cui apparterrai dopo il corteo, non il fatto se sei violento o meno, ma l’efficacia, l’opportunità e la legittimità dell’azione stessa che vai a compiere. Consideriamo le auto incendiate e i negozi distrutti lungo il corteo un grave errore non perchè si tratta di violenza, ma perchè si tratta di azioni inefficaci il cui unico effetto è allontanare e spaventare gente, creando quindi le condizioni di un allontanamento automatico del gruppo che brucia dal gruppo che manifesta pacificamente. Se invece si considerassero sempre queste tre categorie per la protesta si potrebbero trovare forme di conflitto (dall’assalto al Parlamento alle accampate spagnole) generalizzate e molto più significative. Per capirci: se brucio una macchina lungo il percorso del corteo accresco il consenso delle persone che subiscono la crisi verso i motivi della protesta? Se inizio a gambizzare i politici la mia azione è da considerarsi vantaggiosa, per quanto paradossalmente legittima e comprensibile ai più? Per noi la risposta è no, e per questo crediamo che bisogna fare una profonda riflessione su come stare in piazza e sulle pratiche di conflitto che anche attorno allo scontro fisico possono creare sempre maggiore consenso. Senza chiudersi troppo in assemblee fumose che somigliano tanto ai Bologna Social Enclave narrati dai Wu Ming (www.classicistranieri.com/letturecreative/PDF/BSE.pdf) possiamo guardare alle lotte vincenti e più vicine a noi, come il movimento contro la costruzione del TAV e gli indignados spagnoli, e prendere da questi le pratiche giuste per diventare davvero quel 99% di persone che scriviamo nei nostri manifesti contro l’1% di banchieri e politici che ancora decidono sulle nostre vite, avendo ancora chiaro bene in mente che le nostre battaglie e le nostre parole d’ordine, nonostante gli “infarti” e gli anni che passano, sono ancora valide.

SEMINATE AUSTERITY, RACCOGLIETE RIVOLTE

RETE DEI COLLETTIVI STUDENTESCHI PALERMO

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